Una recente ricerca effettuata nei paesi di più antica e rinomata tradizione per le relazioni pubbliche, Stati Uniti e Gran Bretagna, rivela che non è ritenuto necessario dire la verità, quando si comunica con i propri stakeholder e il pubblico in generale. Lo riporta la Ferpi in un articolo pubblicato sul proprio sito l’11 aprile a firma F.C. (titolo La “verità” nelle relazioni pubbliche sconfitta con 138 voti contro 124) riferendosi a un dibattito sull’etica promosso dalla edizione inglese della rivista PRWeek.
E’ proprio nei paesi anglosassoni che il ruolo delle relazioni pubbliche è stato esaminato, studiato, sviscerato in ogni maniera. Ed è da questi paesi che proviene la teoria, oggi condivisa dovunque, che le relazioni pubbliche, per essere efficaci, cioè per servire a qualche cosa che non sia puramente di contorno, devono avere un ruolo strategico. L’opinione del relatore pubblico, infatti, deve avere influenza nelle alte sfere, laddove si prendono le decisioni sul come operare in concreto. Riferendo cioè al board of directors quali sono i comportamenti aziendali da modificare e come modificarli per incontrare le aspettative degli stakeholder.
Ora, a me sembra che, se si sceglie di non dire la verità, non solo il ruolo etico del relatore pubblico ne esca indebolito, ma anche il ruolo strategico, diminuendo notevolmente l’efficacia della sua azione all’interno dell’organizzazione.
Infatti, se un relatore pubblico si limita a raccontare “storie” su quelli che sono i comportamenti dell’azienda, anziché impegnarsi per cambiarli dall’interno, in realtà abdica al proprio ruolo, trasformandosi in un vuoto, inutile fantoccio.
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