martedì 11 ottobre 2011

Le relazioni pubbliche devono cercare la verità. Riflessioni intorno al processo di Perugia

Si parla tanto ultimamente di etica dei relatori pubblici e di codici etici da seguire. Ci si interroga sul ruolo del relatore pubblico che non deve più essere un consulente di immagine che dà fumo negli occhi fabbricando coperture (es. il greenwashing) affinché l’azienda (o ente, o organizzazione) esca sempre nel modo migliore da qualsiasi situazione, anche la più spiacevole, in cui si trova implicata. Si dice che il relatore pubblico deve tendere al bene comune, essendo l’azienda inserita in un corpo sociale al quale non può nuocere con la sua presenza, ma di cui anzi deve contribuire al miglioramento. Si attribuisce al relatore pubblico l’altissimo ruolo di portavoce presso la dirigenza dell’azienda delle istanze esterne all’organizzazione, le istanze sociali. Gli si fa carico del delicato compito di intervenire – intercedere – presso chi prende le decisioni per incorporare in esse il bene comune, non solo il profitto dell’impresa.

Riflettevo su questi concetti cercando di collegarli al processo di Perugia, definito “mediatico” per il fortissimo coinvolgimento dei giornalisti. Secondo alcuni la loro influenza è stata tale da condizionare il verdetto della giuria, sia in primo grado, sia in appello. I giornalisti avrebbero costruito il personaggio di Amanda prima in un modo (la vamp amorale disposta a uccidere chi avesse ostacolato i suoi vizi) e poi all’opposto (la brava ragazza vittima di una campagna diffamatoria). E’ rimasto in secondo piano come un comprimario Raffaele Sollecito, meno provvisto di caratteristiche notiziabili, meno in grado di colpire l’opinione pubblica.

Il primo interrogativo è se la costruzione e la successiva ricostruzione del personaggio della Knox siano tutta farina del sacco dei giornalisti.

E’ assurdo pensare che la stampa sia stata influenzata da qualche spin doctor opportunamente ingaggiato ? Pensare, cioè, che Amanda avesse un qualche addetto alle relazioni pubbliche che ha lavorato per lei ? Qualcuno che, interpellato dopo che al processo di primo grado era stata dipinta come un demonio in gonnella e condannata, ne ha sapientemente ricostruito l’immagine per darla in pasto ai giornalisti (e ai giudici) ? Che le ha procurato l’appoggio di testimonial quali Hillary Clinton e Donald Trump ?

O, al contrario, è ingenuo pensare che no, non l’aveva ?

Qualunque sia la risposta corretta, non è questo il punto. Il fatto è che questo processo è una dimostrazione del grado di intensità con cui i media (e chi ne sta dietro le quinte) riescono a imporre la loro versione dei fatti. Ovunque. Persino in un’aula di tribunale dove idealmente dovrebbero regnare l’imparzialità e la ricerca, per quanto possibile, della verità.

Se ne deduce tutto il peso dell’influenza che i relatori pubblici possono avere nel rappresentare, creare, fabbricare verità e versioni dello stesso fatto.

Ne deve derivare la piena consapevolezza di una responsabilità grandissima, che richiede sempre il perseguimento della verità, della trasparenza, dell’autenticità.