In un’interessante riflessione di Fabio Ventoruzzo pubblicata ieri sul sito della Ferpi l’autore distingue tra le due espressioni americane talk-the-walk e il suo contrario, walk-the-talk.
Con la prima – spiega Ventoruzzo – si definisce lo sforzo di un’organizzazione per cercare di uniformare i propri comportamenti alla propria comunicazione: prima si dice che cosa si farà e poi lo si fa, o si cerca di farlo. La seconda significa invece dire quello che si fa, comunicare i propri comportamenti effettivi.
Secondo Ventoruzzo l’approccio ideale deve tener conto di entrambe ma – nel nostro mondo professionale reale – la strada da seguire è piuttosto la seconda anche se, ammette, agendo in tal modo un relatore pubblico dovrà truccare un po’ la verità per nascondere le magagne dell’organizzazione che rappresenta.
Premetto che non mi interessa entrare nel dibattito politico (l’articolo di Gian Antonio Stella del CorSera, che Ventoruzzo riprende e commenta, ha un taglio politico), mentre intendo affrontare il discorso dal punto di vista della comunicazione in azienda.
A mio parere, l’approccio talk-the-walk, che dei due preferisco, non si sostanzia, come sostiene Ventoruzzo, nel raccontare qualcosa prima ancora di averlo fatto e poi fare i salti mortali per farlo, spesso senza riuscirci. Consiste invece nel continuo sforzo da parte dell’azienda per cercare di rendere coerenti i propri comportamenti con quella che è l’identità che ci si vuole dare, e quindi con l’immagine che si riflette esternamente e che rappresenta questa identità.
Mi pare che tale approcciio sia alla base di quello che da tutti gli esperti più illuminati in materia è considerato il compito più alto del relatore pubblico: quello cioè, dopo aver ascoltato le istanze degli stakeholder, di rappresentarle presso la coalizione dominante per integrarle il più possibile nelle politiche aziendali.
Chiaro che non si tratta di porsi degli obiettivi irraggiungibili e non sostenibili da parte dell’azienda, - sarebbe folle - bensì di identificare quello che è concretamente fattibile e inserirlo in una attenta e dettagliata programmazione, da mettere in pratica passo dopo passo.
Più rischioso dell’altro, perché alle dichiarazioni di intenti devono seguire i risultati, l’approccio talk-the-walk è innovatore: non si accontenta di comunicare lo status quo, ma si impegna per migliorarlo, è capace di pensare in grande e sul lungo termine, immaginando scenari non ancora presenti. Ma per essere efficace richiede anche molta concretezza (leggi programmazione strategica e poi tattica).
Dei due, è quello che meglio corrisponde al quarto modello di Grunig, e l’unico che consente al relatore pubblico di avere un ruolo strategico. Il walk-the-talk mi sembra tanto press agentry, si caratterizza per una certa miopia di vedute, non è interessato al cambiamento (comunica le cose come stanno), richiede molto meno coraggio e relega il comunicatore in un ruolo esecutivo.
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